Se Trimalcione vi capitasse a cena, cosa servireste a tavola?

Avatar photo Marilde Motta19 Settembre 2022

Se per magia il personaggio inventato da Petronio si materializzasse oggi, a cena, a casa vostra, la gestione dell’arricchito e tracotante liberto vi creerebbe qualche difficoltà per contenere le sue intemperanze.

Lascio a una rilettura del capitolo “La cena di Trimalcione” del Satyricon l’approfondimento di usi e costumi dell’epoca. Per le pietanze lo si potrebbe accontentare senza problema, o quasi. Ci ha pensato ArkeoGustus  a riproporre alcune delizie dell’antica Roma.

Una giovane archeologa, Claudia Fanciullo, ha unito la passione per la storia con quella per la cucina e ha dato vita ad ArkeoGustus, un progetto che si propone di salvare dall’oblio alcune ricette di oltre 2000 anni e di adattarle in chiave contemporanea.

Nel primo lustro di attività ArkeoGustus si è dedicata anche alla divulgazione della storia della gastronomia nel suo sviluppo secolare. Claudia Fanciullo ci guida a scoprire l’antico e l’attuale della gastronomia con le salse che ha ideato.

L’Impero Romano raggiunse una grandissima estensione territoriale e la politica di assimilazione delle genti ha portato a Roma molti e diversi ingredienti e tradizioni culinarie. Cosa è filtrato nell’attuale cucina italiana?

Nell’attuale cucina che noi chiamiamo comunemente “italiana” ci sono tante influenze antiche che hanno dato spessore alle nostre tradizioni enogastronomiche. Queste non derivano neppure tutte dall’Antica Roma, ma vanno ancora più a ritroso nel tempo e nella geografia. Per esempio la pasta ha origine in Cina, ne è testimone un reperto archeologico di quattromila anni fa.

La Magna Grecia, a noi più vicina, ci ha tramandato la lavorazione delle olive e dell’olio che ancora oggi nelle zone meridionali italiane regala eccellenze. Se restiamo nel sud Italia c’è una tradizione immutata nel tempo che vede come protagonista una salsa antichissima, il garum, un insieme di pesce, sale ed erbe aromatiche, che fatto fermentare, veniva utilizzato dagli antichi Romani per condire quasi tutto.

A volte le fonti storiche più note, come il “De Re Coquinaria” di Marco Gavio Apicio, primo gastronomo riconosciuto di Roma, ci lasciano sbalorditi sull’utilizzo del garum. Non solo le fonti scritte ma anche quelle materiali delle “officine” ritrovate a Pompei ci insegnano che questa salsa veniva utilizzata per insaporire anche i dolci creando quel contrasto tanto amato dai romani. Cosa è rimasto? Oltre ad alcune salse ancora in uso nei paesi orientali, come nelle Filippine con il loro Bagoong ed il Nuoc Mam in Vietnam, noi abbiamo la Colatura di Alici di Cetara. Dal mondo romano ancora molto in uso è una ricetta che somiglia alla nostra antica testimonianza di pasta, le lagane con i ceci, stesso formato e tradizione mantenuta nel tempo.

Passiamo poi al pane che tra le testimonianze più importanti ritrovate tra nord e sud, resta l’alimento base per tutti i ceti sociali anche se gli ingredienti mutavano in base alla tavola da imbandire. Noi però pensiamo al pane bello caldo, ben lavorato ma non era sempre così soprattutto quando si doveva viaggiare per chilometri e si prendeva parte ad una missione di ampliamento territoriale. In questo caso si cercava di cucinare negli accampamenti anche il pane era molto simile alla nostra piadina romagnola ed accompagnava le carni.

Abbiamo svolto uno studio proprio su questa tematica in merito al passaggio di Giulio Cesare sul Rubicone e all’origine della Piada, che ovviamente resta un’ipotesi da approfondire. Quando mangiamo un piatto tipico o beviamo un vino del territorio e ci sediamo a tavola in realtà compiamo un gesto antico, un rituale che abbraccia le nostre radici, attraverso il quale poter vivere appieno la tradizione storica e archeologica ed è importante rendersene conto. La storia si può rivivere anche nei gesti quotidiani.

Quali sono le difficoltà nel ricostruire una ricetta antica di duemila anni?

Ricostruire una ricetta non è cosa facile perché si deve tenere conto di tanti fattori a cominciare dal reperimento degli ingredienti, molti ormai estinti e quindi inevitabilmente si cerca di avvicinarsi, attraverso lo studio dell’archeobotanica, dell’archeozoologia, dell’iconografia e dell’elaborazione dei dati materiali ritrovati nel corso degli scavi, a delle fonti che ci permettano di reperire un ingrediente simile sia nella struttura che nel sapore.

Il problema successivo riguarda i metodi di cottura e i materiali per la cucina che è possibile far ricreare da bravi artigiani del territorio, ma il problema più grande sono le dosi. Non esistono dosi scritte nelle ricette delle fonti storiche, per quello che riguarda il periodo romano. Quando si ricrea una ricetta o una fase di lavorazione bisogna considerare che non è assolutamente possibile parlare di autenticità nei sapori e di struttura ma solo di riadattamento. Il sapore, per esempio, è da riadattare al tempo moderno: non si può pensare di far mangiare un fenicottero in agrodolce oppure il garum sulla frutta, né tanto meno il ghiro. Come si procede allora?

Ci sono due ingredienti che ArkeoGustus ha fatto propri: la coerenza e l’etica professionale.

Così parliamo di un prodotto “alla maniera di..” e non di “uguale a..”. Cerchiamo le materie prime più adatte, antiche e non trattate come il farro monococco, spezie direttamente dall’Oriente e ingredienti più vicini alle fonti. Poi si seguono le istruzioni delle opere scritte e si prova e riprova fino a quando non si riesce a trovare un equilibrio. In quell’equilibrio ci sono anni di studio, di ricerca e di amore per la cucina.

Gli scavi archeologici a Pompei hanno messo in luce numerose botteghe che potremmo definire come antesignane del fast food e si sono preservate tracce di quel che servivano. C’è qualcosa di riproponibile?

Da archeologa ci tengo a precisare che spesso si utilizzano termini moderni per rendere “accattivante” una tematica, ma il termine “fast food” non è appropriato a questa grande scoperta che ha messo in luce un vero e proprio ristorante dove si prendeva del cibo già pronto e si poteva portare via o mangiare sul posto. Spesso non si tornava a casa tra una pausa e l’altra e si mangiava fuori anche perché le case umili non avevano neppure la cucina.

Ci troviamo davanti a delle preparazioni di cibo per persone comuni e trovo che sia una scoperta sensazionale perché, è facile studiare le abitudini dei nobili ma del popolo parlano poche fonti. Gli studi effettuati nella Regio V, davanti ad una piazza di grande passaggio all’angolo fra il vicolo dei Balconi e la casa delle Nozze d’Argento, hanno dato spazio a delle scoperte incredibili: pentole in coccio con i resti delle pietanze, dal capretto alle lumache e persino una sorta di “paella” con pesce e carne insieme.

Il vino corretto con le fave (sbiancante naturale) e pronto per la mescita. Un grande bancone a “elle” decorato con immagini così realistiche da apparire quasi in 3D. Se dovessi riproporre qualche ricetta di sicuro però studierei meglio le salse da accompagnamento e qualche pietanza a base di cereali.

Del resto con ArkeoGustus abbiamo dato vita proprio al concetto di proposta archeogastronomica con le nostre Conserve Antiche. Una linea di salse che si accompagnano ai formaggi e che ripercorrono il “cursus” storico a partire proprio dalle tradizioni di Roma Antica.

Oltre all’archeologia, vi occupate anche di storia culinaria attraverso i secoli. Quali sono i vostri prossimi progetti di recupero di materie prime e ricette?

ArkeoGustus intende divulgare la storia e l’archeologia attraverso lo studio della gastronomia antica. I nostri prodotti sono nati dalla volontà di creare una linea continua tra studio ed approccio esperienziale in cucina ed è per questo che tendiamo a valorizzare tutti gli aspetti storici sviluppando delle sezioni di ricerca.

Selezione di salse proposte da ArkeoGustus.

Ci siamo orientati su Roma Antica con le quattro salse in produzione, due dolci e due salate, le cui materie prime sono state ritrovate grazie alle fonti storiche ed iconografiche raccolte negli anni. Parliamo di “Datteri Speziati” o Dulcia Domestica, una ricetta recuperata dal De Re Coquinaria di Apicio e riadattata. Ho trasformato un piatto di datteri caramellati nel miele con sale, pepe e frutta secca in spalmabile e da abbinare ai formaggi dolci. I datteri scelti sono i Medjoul, una categoria ritrovata anche tra gli affreschi di Pompei insieme ai Deglet Noir che però non ho scelto perché non avevano una buona resa.

Questo è il nostro prodotto simbolo, quello che vendiamo di più ma ci sono due salse molto particolari a base di olive (olive pugliesi) che danno vita a due ricette antiche: la Samsa a base di olive nere e spezie che era solita essere venduta ai mercati popolari; l’Epityrum Albinum a base di olive verdi e spezie che invece si mangiava tra i nobili, i patrizi. Ultima ma non ultima per importanza, una sezione di studio riferita ai Frutti Dimenticati che è parte di un processo di rivalorizzazione delle specialità del territorio italiano, a cominciare da una mela antica di duemila anni: la mela annurca igp. Questa mela l’ho recuperata da un meleto di Caianello in Campania dove un bravissimo piccolo produttore porta avanti la coltura.

I Datteri Speziati sono una salsa dedicata al mondo dell’Antica Roma e derivano da un vetusto ricettario del I sec. d.C. del più famoso gastronomo romano Marco Gavio Apicio.

Ecco, puntiamo molto sui piccoli produttori e sulla valorizzazione storica del cibo e come prossimo passo stiamo già studiando altre ricette dedicate ai frutti dimenticati per dare continuità a questi prodotti effettivamente unici. Affronteremo anche i vini quindi la vinificazione antica, ma per ora mi concentro sulle Conserve Antiche.

Con i nostri eventi di degustazione archeologica ci proponiamo di far comprendere ai clienti che la storia è una linea continua che giunge fino ai nostri giorni e non si è mai interrotta. Magari assaggiando un nostro prodotto possiamo immaginare di fare un viaggio nel tempo attraverso il gusto e di fare divulgazione attiva attraverso l’archeologia sperimentale, del resto

il motto aziendale è “L’archeologia è servita!”.

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Marilde Motta