Aroma mania: presi per il naso

Avatar photo Marilde Motta30 Agosto 2022

È una tendenza che si sta espandendo a macchia d’olio e nemmeno l’olio ne è esente giacché ci sono le varianti al peperoncino, all’origano, all’aglio.

Dare un aroma distintivo a birra, vino, acque minerali e praticamente a qualunque cibo, o bevanda è il passo obbligato

di molti produttori incalzati delle preferenze manifestate dai consumatori che amano essere affascinati da essenze florali, orientali, fresche, golose, esotiche. In pratica si è ormai radicata una sorta di “aroma mania” che porta a saturare di intense fragranze qualunque prodotto, inclusi gli alimentari che di per sé non ne avrebbero bisogno.

L’interesse è soprattutto per gli aromi che si percepiscono a naso, anche se poi il gusto e il lavorio delle papille gustative si combinano all’unisono con l’olfatto per rilasciare sensazioni più o meno incisive.

Gli aromi sono materia fra il giuridico (i regolamenti dell’Unione Europea, come il n. 1334/2008 e successive modifiche che forniscono la bussola di riferimento) e il chimico.

Possono infatti derivare, attraverso vari procedimenti, da frutti e fiori, tanto quando essere completamente costruiti in laboratorio.

Oggi la nomenclatura europea distingue fra:

-aromi naturali

-aromi natural-identici

-aromi artificiali.

Anche se in etichetta ci sono le corrette informazioni richieste dalla normativa, ben difficilmente un qualunque consumatore può cogliere le differenze. Così la stragrande maggioranza, piuttosto che affrontare l’impervia lettura dell’etichetta, si fida del brand del produttore, presta fede alla sua comunicazione, o a quella dell’insegna del distributore nel caso di private label, lasciandosi conquistare “a naso” dalle sensazioni olfattive.

Per i produttori dell’agroalimentare, il vantaggio dell’utilizzo degli aromi risiede nelle molecole volatili che arrivano a stimolare i ricettori sensoriali (nella cavità nasale ci sono circa 10 milioni di neuroni che ricevono stimoli e li traducono in segnali) anche da una certa distanza, ancor prima di assaggiare il prodotto, o di valutarne altri aspetti come consistenza, forma e colore.

Molecole che danno luogo a sensazioni che fanno pregustare il sapore.

D’altra parte l’arte del profumo, per il côté cosmetico, seduce da millenni uomini e donne proprio con il potere olfattivo delle molecole volatili. Potere che l’industria food & beverage ha fatto proprio e sta utilizzando con accortezza in una sorta di realtà aumentata degli aromi.

Capire perché le persone non accettino più odori semplici e veri tanto quanto evanescenti ed effimeri

è materia per serie analisi sociologiche. Ci troviamo di fronte a un duplice comportamento portato avanti congiuntamente: da un lato vi è la ricerca di cibi autentici (comprovato dal successo crescente dei prodotti contrassegnati con i marchi UE di tutela), sani (per esempio dotati di certificazioni bio), con precise caratteristiche (come i prodotti vegani, free from, rich in ecc.), dall’altro si è radicata una sorta di un horror vacui quando vengono a mancare sensazioni olfattive intensamente saturate.

Abbiamo posto a Luigi Odello enologo, giornalista, docente nonché presidente del Centro Studi Assaggiatori (linkedin.com/in/luigi-odello-33200210), alcune domande per ampliare il tema degli aromi.

Cosa riesce a percepire una persona normale rispetto a un professionista della degustazione?

Noi partiamo dal presupposto che i professionisti della degustazione siano persone normali e non dei superdotati nel senso comunemente inteso, quello di avere più recettori della media. Quindi, in considerazione che è il cervello ad avere la percezione, un giudice sensoriale segue un percorso formativo che lo induce a una specie di percezione aumentata agendo proprio sulla sua consapevolezza di come intervengono i diversi meccanismi, soprattutto quelli elaborativi, quindi a livello psicologico. Il giudice impara quali errori può commettere, apprende i metodi per fare una scansione fine di ciò che gli viene proposto e a prestare un’attenzione particolare. Ma soprattutto impara a migliorare con l’esperienza.

Ci sono metodi semplici che ciascuno potrebbe mettere in pratica per migliorare l’apprezzamento di cibi e bevande?

Sicuramente sì, sfruttando le sue doti di curiosità che lo portano alla scoperta dei segnali deboli, imparando a correlarli con la composizione e i processi di produzione, descrivendo la percezione che ha e discutendone apertamente con altri per un confronto arricchente anche sotto il profilo lessicale. Sono le tecniche che usiamo quotidianamente per avere dei gruppi di valutazione migliori.

Nell’industria alimentare c’è una tendenza ad aggiungere addensanti, coloranti, aromi. L’obiettivo è potenziare la percezione sensoriale, o si finisce per fare un’inutile “cosmetica” di prodotto?

La tendenza c’è, è forte e molte volte le scienze sensoriali sono usate in modo improprio o insufficiente. La validazione di un prodotto da parte dell’industria avviene in molti casi sulla base di macro caratteristiche e non tiene conto che il nostro cervello agisce sulla base di segnali deboli e non si lascia ingannare. Per questo i test ad alta utilità informativa che scavano nel profondo hanno così tanto successo.

La nomenclatura europea distingue fra aromi naturali, aromi natural-identici, aromi artificiali. Cosa si potrebbe fare per rendere i consumatori più consapevoli delle loro scelte quando stanno per acquistare un prodotto?

La legislazione europea in merito è molto complessa ed è indiscutibile che i produttori abbiano l’esigenza di aggiungere aromi. Però abbiamo casi virtuosi – si pensi al vino – in cui gli aromi sono generati durante il processo e non possono essere addizionati. Quindi occorrerebbe una spinta verso l’innovazione anche per molti altri prodotti e questa potrebbe avvenire proprio dal consumatore se educato a prediligere quanto viene offerto in esenzione di aromatizzazione. Comunque resta la regola di base: almeno pretenda che sulla confezione sia riportato “aromi naturali”.

Le trasmissioni televisive sono piene di corsi di cucina, sui social se ne trovano a iosa, ci sono riviste cartacee dedicate e non mancano nei B&B di campagna. Insomma, parrebbe una situazione idilliaca di estrema diffusione della scienza gastronomica, ma a che punto siamo realmente?

L’interesse è davvero molto alto e la tendenza presuppone la sua crescita, anche con il supporto del turismo. I territori stanno preparandosi a generare scuole di cucina e tra poco ci troveremo in orti fitoalimurgici a raccogliere erbe che poi impereremo a cucinare. In un tale contesto occorre una solida comunicazione fatta da specialisti che non ricerchino lo scoop, bensì la sobria verità. Vedrei bene un maggiore intervento di nutrizionisti e simili e, ovviamente, di sensorialisti. Perché se una cosa non è buona il suo successo non ci sarà o sarà di breve durata.

I canali horeca e gdo da cui, sebbene con diversa modalità, passa il flusso di tutte le referenze agroalimentari hanno un qualche dovere di formazione, o informazione in tema di analisi sensoriale?

Ecco, questo è un tema importantissimo. Anni fa avevamo ipotizzato un corso di laurea per personal shopper. Non ci siamo arrivati, ma ci si potrebbe accontentare di banconisti e assistenti allo scaffale ben preparati, in grado di dare informazioni sul prodotto. Se poi ne sapessero anche narrare la storia sarebbe il massimo.

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Marilde Motta