Protein Frenzy per un business molto promettente.

Cosa sono le proteine? A cosa servono? Perché hanno un successo crescente gli alimenti che contengono tante proteine? Tre domande di cui la terza implica la risposta più difficile.

Le proteine ​​sono grandi molecole estremamente complesse, costituite da centinaia o migliaia di unità più piccole chiamate amminoacidi; unità attaccate l’una all’altra secondo lunghe catene e ramificazioni. Poiché esistono 20 diversi tipi di aminoacidi che possono essere combinati tra di loro per formare una proteina, ne discende che le  strutture tridimensionali tipiche di ciascuna proteina sono innumerevoli e che queste combinazioni ne determinano la funzione e le proprietà.

Le proteine condizionano la vita e lo sviluppo delle cellule degli esseri viventi, nonché la funzione e la natura dei tessuti e degli organi del loro corpo. Pertanto esse vengono classificate con vari nomi: anticorpi, enzimi, messaggere, ecc.

Il corpo umano ha costantemente bisogno di proteine ​​per la crescita e il mantenimento dei tessuti,  In circostanze normali, i processi metabolici scompongono le proteine ​​in aminoacidi per “costruire” e riparare i tessuti.

Le proteine non si accumulano nel corpo,

dunque, perché a partire dalla masticazione e dalla salivazione, sino alla completa digestione le proteine vengono demolite e rese fungibili allo scopo descritto.

Insomma gli esseri viventi hanno bisogno di un continuo apporto di proteine e accade anche che se ne scompongano di più ​​di quante ne possano creare, come capita durante certe malattie o a causa di sforzi accentuati. Pertanto può accadere che troppe proteine digerite facciano male.

Ma perché negli ultimi 10 anni negli USA e negli ultimi 3 in Italia, milioni di persone hanno sentito il bisogno di consumare alimenti fortificati con dosi cospicue di proteine? La risposta è difficile perché risiede nel campo della cultura popolare, e di consumo, nello specifico.

In “Pensato e mangiato“, un testo di Daniele Tirelli si può trovare qualche accenno alla complessa dinamica che guida l’assorbimento da parte della cultura popolare di nozioni scientifiche ultra-semplificate, di luoghi comuni mitizzati, di influssi delle “quasi-religioni” alimentari, nonché dei messaggi che il marketing delle aziende alimentari immette in continuazione nei vari circuiti informativi delle nostre attuali società.

Va detto che il marketing è largamente incolpevole nel caso degli eccessi che si manifestano in determinate situazioni e nelle microtendenze che producono quegli eccessi. Il marketing aziendale opera per obiettivi limitati a specifiche gamme di prodotti, mentre, al contrario, è l’evoluzione culturale (in senso ampio) di una società che possiamo dire ormai largamente globalizzata e che supera le barriere delle tradizioni, a produrre tendenze, mode e manie che le singole aziende devono(!) sfruttare se vogliono sopravvivere nel contesto competitivo. Ma qui il discorso si farebbe lungo.

Proteine è, in ogni caso, la parola d’ordine che sta aiutando a vendere molti tipi di prodotti alimentari e non solo. Quasi tutte le aziende del settore stanno applicando marchi ed etichette “proteiche” sempre più evidenti sulle confezioni e stanno aggiungendo proteine ​​a prodotti come bevande, barrette e cereali.

Ma come è nato questo interesse, questo bisogno, questo desiderio di sempre maggiori proteine?

La storia sarebbe molto lunga e articolata e ricalcherebbe, per certi versi, la “vitamine frenzy” degli anni ’30, quando quest’ultime passarono dalla scoperta scientifica, alla diffusione alimentare massificata, con il conseguente entusiasmo legato all’idea dell’alimento risolutivo per la salute,  la funzionalità corpore e, finanche, la bellezza.

Per focalizzarci su qualche punto di riferimento storico, allora, può essere utile una rilettura di un articolo del 2013, comparso sul Wall Street Journal, dal titolo significativo: “When the box says ‘protein’ shoppers say ‘i’ll take it“. La data di pubblicazione dimostra anche come il lag temporale tra USA, Europa e Italia, nello specifico, a riguardo delle tendenze di consumo, si mantenga quasi costante e, per la maggior parte dei prodotti, di circa 7-10 anni.

 

 

 

Proteine” su un’etichetta significa cose diverse e positive per clienti diversi, affermano le aziende di alimenti confezionati.” (Wall Street Journal -26 marzo 2013)

Ci sarebbe da dire che tutto ciò ebbe una fase preparatoria basata su dibattiti scientifici e poi divulgativi e poi volgarizzati sui vari tipi di diete.

In particolare, la vergogna sorta tra gli statunitensi per i loro corpi deformati dall’obesità dilagante attribuita al consumo smodato di zuccheri e carboidrati, trovò rimedio e consolazione in proposte low-carb, trasformatesi in NO-carb, organizzate in diete a base di grassi e molte proteine anche a prezzo di alitosi, stipsi e altri piccoli sgradevoli inconvenienti che caratterizzano per esempio la Keto-Diet.

Poi come sempre le origini delle tendenze in atto si perdono, si stemperano in una precettistica meno precisa e rigorosa com’è appunto la “filosofia”  HI-Pro. Sia come sia, il Wall Street Journal nel 2013 citava il profilo sociologico dei più entusiasti adopter del concetto “più proteine”.

Gli idealtipi individuati negli USA, più di un decennio fa dalla ricerca di mercato, erano , i seguenti:

  • Dieter : ovvero coloro che cercavano di perdere peso grazie ad alimenti che promettendo più proteine ​​avrebbero agito come inibitori dell’appetito e degli snack, assieme  all’effetto low-carb (o minor accumulo di grassi).
  • Appassionati di fitness : quelli che,  al contrario dei culturisti attenti solo alla crescita della massa muscolare, associavano le proteine ​​ ​​ad un apporto energetico che conferisse forza e resistenza.
  • Impiegati: i sedentari, abitanti degli uffici e avvezzi alle continue riunioni alternate dal lavoro al computer, attratti dalle proteine ​​come pasto leggero che aiuta a rimanere vigili senza gli appesantimenti post-prandiali; cioè, l’alternativa sana alle “candy-box” sul tavolo dell’ufficio e agli snack.
  • Mamme salutiste: madri di bambini tutti vivaci, attivi e geniali, che vedevano  nelle maggiori proteine ​ un modo per mantenere alta l’energia di un bambino prima e dopo la pratica sportiva o una lunga giornata scolastica.

E il WSJ proseguiva osservando che, nei decenni precedenti, i consumatori rispondevano a claim come “basso contenuto di grassi”, “basso contenuto di zuccheri” e “niente colesterolo”, mentre, ora, più della metà dei consumatori cercava più proteine ​​e fibre per la colazione, come affermava Doug VanDeVelde, senior vice-president of food marketing and innovation for Kellogg’s.

Un prodotto con le proteine ​​nel marchio, secondo la Food and Drug Administration chiamata a mettere ordine, non doveva necessariamente contenere una quantità minima di nutriente, ma tutte le descrizioni delle confezioni degli alimenti dovevano essere veritiere e non fuorvianti secondo le sue normative. Cioè, se un’etichetta diceva “buona fonte di proteine”, la FDA, però, affermò che il prodotto doveva contenerne almeno 5 grammi ​​per porzione.

Un aspetto sottolineato dal WSJ era che dieci anni prima, le persone generalmente associavano le proteine ​​alla costruzione muscolare. Quando le persone cominciarono ad adottare diete a basso contenuto di carboidrati e ad alto contenuto proteico, lo fecero, insomma, associando il bisogno di energia e di sazietà implicito nel consumo di proteine. Le proteine ​​​ ricevettero, allora, una spinta  – ad esempio – dal più recente e apparentemente illimitato, passionale, nuovo amore degli americani per lo yogurt greco, spesso commercializzato con la motivazione di un contenuto maggiore di proteine rispetto ad altri tipi di yogurt.

Più recentemente The Guardian (Ven 4 gennaio 2019)  notava come l’attuale mania proteica (ormai diffusa tra le classi medie di ogni nazione) fosse in parte nata dal sospetto negativo di tante persone verso i carboidrati o i grassi (e talvolta verso entrambi). Conseguentemente, nelle attuali guerre nutrizionali, le proteine  emersero come l’ultimo macronutriente legittimato da un vissuto positivo.

Ma la “fissazione sui macronutrienti” è un “disordine” concettuale disastroso per la salute pubblica, almeno secondo David L Katz, un medico americano e studioso di salute pubblica che è anche il direttore dello Yale-Griffin Prevention Research Center e autore di un libro di successo: The Truth About Food: Why Pandas Eat Bamboo and People Get Bamboozled.

“Prima ci hanno detto di tagliare il grasso.  Ma invece di cereali integrali e lenticchie, abbiamo mangiato cibo spazzatura a basso contenuto di grassi”. Poi i marketer alimentari – e sono sempre parole di Katz  – hanno colto il messaggio sul taglio dei carboidrati e ci hanno invece venduto cibi spazzatura arricchiti di proteine. “Quando parliamo di proteine”, ha detto Katz, “stiamo dissociando il nutriente dalla sua fonte in quanto cibo”.

Un altro esempio dell’effetto alone sulla salute di queste manie collettive è il fatto che gli acquirenti spesso reagiscono alle etichette in modi illogici. “Quando osservano gli alimenti etichettati come biologici, i consumatori attribuiscono a quegli alimenti molte altre caratteristiche come l’avere meno calorie ed essere più nutrienti”, affermava Brian Wansink, docente di Consumer Behavior e direttore del Food and Brand Lab presso la Cornell University.

Un fenomeno su cui richiamava l’attenzione il quotidiano inglese,  era il fatto che, in pochi decenni, le proteine ​​del siero di latte passarono da prodotti di scarto a stimolatori di uno stile di vita d’avanguardia. Banalmente, il siero di latte è la sostanza acquosa rimasta durante la produzione del formaggio e dopo la separazione della cagliata.

Nei caseifici tradizionali, veniva utilizzato in molti modi, dalla panificazione ai sottaceti, ma nei grandi caseifici americani, negli anni del dopoguerra, finì per essere visto come un fastidio indesiderato. Negli stati nordamericani forti, come il Wisconsin, i caseifici scaricavano migliaia di litri di siero di latte nei fiumi vicini.

Fu negli anni ’70, che le autorità locali posero, invece, dei limiti allo scarico dei rifiuti caseari. I produttori di formaggio si resero conto allora di dover trovare un modo per riciclare il fastidioso siero di latte. La qualità del siero di latte in polvere – noto come “popcorn whey” – però era scarsa ed esso era usato principalmente per nutrire i maiali.

La tecnologia chiave che rese possibili valorizzare le proteine ​​del siero di latte fu lo sviluppo delle tecniche di ultrafiltrazione per pre-concentrare il siero prima che fosse essiccato. Fu allora che le proteine ​​del siero di latte iniziarono a essere prodotte e commercializzate su scala industriale.

I produttori, attualmente, lavorano il siero del latte partendo dal presupposto che i consumatori vogliano che sia il più possibile insapore, così da preservare l’illusione che sia una sorta di pozione magica che divenendo parte degli alimenti li renda salubri, digeribili, energetici e anche dimagranti.

il giornalista di The Guardian, autore dell’articolo, prevedeva allora che il mercato globale delle proteine derivate dal latte raggiungesse i 14,5 miliardi di dollari entro il 2023: ovvero, più della metà del mercato globale dei cereali per la colazione.

Un punto fondamentale del lungo articolo era una nota sulle proteine ​​vegetali ricavate, ad esempio, da lenticchie e piselli.  Tuttavia, nei primi anni della “protein frenzy” esse erano considerate di “bassa qualità” rispetto a carne, uova e latticini.

Già Christopher Gardner, professore di medicina della Stanford University, aveva affermato che questo argomento di “qualità”, tuttavia, è fuorviante. Poi, subentrò l’attuale “plant based frenzy”, che corrisponde alla crescita parabolica delle referenze  di una nuova categoria di prodotti.

La grande scoperta era stata che tutte le fonti vegetali di proteine, dalle arachidi ai fagioli edamame, contengono tutti gli aminoacidi essenziali. Certo, contengono concentrazioni di aminoacidi inferiori rispetto alla carne o alle uova, ma nel contesto di una dieta abbondante e varia, questo non importa.

Esisteva però un problema. Fagioli e lenticchie non si adattavano alla prima “fisosofia” proteica  perché quei legumi contengono sì il 25% di proteine, ​​ma anche il 25% degli aborriti carboidrati. Quindi, per l’approccio dogmatico alla “modernità”, la lenticchia era una proteina (buona) o un carboidrato (cattivo)?

Ricordiamo poi che la proteina vegetale strutturata Textured Vegetable Protein è stata inventata dall’azienda di prodotti agricoli e di trasformazione alimentare Archer Daniels Midland negli anni ’60; la società è proprietaria infatti del nome  “proteine ​​vegetali testurizzate” e l’acronimo TVP divenuti marchi registrati.

Nel 1967 Scienziati britannici scoprono che il Fusarium venenatum , nonostante il nome, era un fungo ad alto contenuto proteico. Uno dei suoi ceppi viene utilizzato ora commercialmente per la produzione della micoproteina proteica unicellulare Quorn e come alternativa alla carne.

Fu così che  alcune aziende innovatrici già nel 2011-12 puntarono, su un allargamento degli usi delle proteine vegetali. Tra esse Silk (un marchio di proprietà di WhiteWave Foods Co) che lanciò  Fruit & Protein, uno smoothie  per quei consumatori che cercavano proteine anche nei succhi al mattino, poiché ne contenevano 5 grammi ​​per porzione, uno in meno rispetto al latte di soia Silk Original perché il succo di frutta diluisce il latte di soia.

Nonostante la crescita costante del settore negli ultimi anni, il mercato delle proteine ​​vegetali (vegane) in polvere ha trovato una serie di ostacoli da affrontare. La sfida chiave per l’industria è il basso livello di consapevolezza e di accettazione da parte dei consumatori circa le proteine ​​in polvere di origine vegetale, oltre a quelle a base di soia. Insomma, sembra che le polveri a base di proteine ​​animali rimangano più popolari rispetto alle alternative vegane.

È probabile che ciò sia dovuto alla mancanza di consapevolezza sul veganismo nei paesi in via di sviluppo e che, in tutto il mondo, l’elevato consumo di carne ne ostacoli la crescita generale. Ulteriormente, un  problema è lo scarso equilibrio dei profili nutrizionali offerti dalle formulazioni esistenti, assieme a problemi di consistenza, gusto e digeribilità.

Il Nord America, guidato dagli Stati Uniti, è il mercato dominante per le proteine ​​vegetali vegane. La maggiore penetrazione del veganismo e una popolazione  di vegetariani in espansione, sostenuta da campagne promozionali della televisione e dei social media, stanno spingendo la forte crescita del mercato.

Il tutto si ricongiunge alla crescente preoccupazione negli Stati Uniti per l’obesità e gestione del peso e la degli stili di vita più frenetici hanno che stanno creando un ambiente favorevole per le vendite di proteine ​​vegane complementari o integrate nei vari prodotti.

Dopo il Nord America, la domanda di proteine ​​vegane più forte è in Europa, dove si giustifica con la maggiore consapevolezza dei consumatori in merito all’impatto ambientale dei prodotti animali e ai benefici per la salute delle diete a base vegetale.

La Germania, in particolare, manifesta la crescita relativamente più forte. Secondo il Global Agriculture Information Network , circa il 63% della popolazione tedesca si starebbe impegnando per ridurre al minimo il consumo di carne, (magari attraverso il consumo di insetti), ma in molti altri casi optando per il veganismo come scelta di vita ancor prima che nuovo tabù alimentare.

Conclusione (provvisoria): dallo studio di questa tendenza globale possiamo comprendere meglio le prospettive che si aprono in Italia, paese che può sfruttare (in questo campo) tutti i vantaggi dei “late comers”.

Daniele Tirelli - Loris Tirelli