Storie di mari e oceani in una scatoletta di tonno

Avatar photo Marilde Motta29 Ottobre 2023

Avete mai dedicato tempo a leggere una scatoletta di tonno? La trovereste non meno appassionante di un romanzo di Joseph Conrad, o di Herman Melville. Ci sono infiniti orizzonti d’acqua, tempeste, capitani coraggiosi o quasi. Oggi le flotte di pescherecci sono navi di grosso tonnellaggio organizzate come fabbriche in cui, oltre alla pesca, avvengono molte altre operazioni di lavorazione del pesce.

Comunque la scatoletta offre una lettura intrigante e istruttiva se si vuol esser certi di quel che si mangia, basta saper interpretare una sigla un po’ misteriosa che appare obbligatoriamente su ogni confezione. Per esempio FAO 87 significa area di pesca del Pacifico Sud-Est. Il tonno pescato in tale zona può poi essere lavorato in un’azienda in Colombia, o altro Paese che si affaccia su quel versante del Pacifico e successivamente importato in Italia. Una scatoletta di sgombro?

Se riporta la sigla FAO 27 è stato pescato nell’Atlantico Nord-Est e magari inscatolato in Norvegia. Una confezione di nasello? Potrebbe essere stato pescato nella zona FAO 67, ossia Pacifico Nord-Est e inscatolato in Alaska, oppure può essere stato congelato e spedito per il confezionamento (al naturale, in olio di semi di girasole, in olio d’oliva ecc.) in qualunque altra area geografica anche lontanissima dal punto di pesca.

Le zone di pesca FAO sono delimitate in base ai gradi di latitudine e longitudine e segnano confini definiti attraverso accordi con le varie agenzie di gestione e controllo della pesca che ci sono in diversi Paesi (per l’Europa va considerata la European Fisheries Control Agency che lavora in base alla Common Fisheries Policy dell’Unione Europea). Va infatti tenuto presente che la pesca e la trasformazione del pescato rappresentano un’industria di fondamentale importanza per molti Paesi e per alcuni è addirittura la prima in assoluto.

L’esigenza della suddivisione di mari e oceani in aree specifiche per la pesca nasce da ragioni economico-statistiche per dare appunto un riscontro della portata dell’industria della pesca (la FAO produce una grande massa di report e analisi statistiche consultabili nel sito www.fao.org fra cui il FAO Yearbook of Fishery and Aquaculture Statistics), ma anche per tracciare la situazione dell’ecosistema marino.

Alcuni metodi di pesca sono infatti proibiti in alcune aree, o in alcuni periodi dell’anno poiché troppo intensivi (come per esempio i Fishing Aggregative Devices che rappresentano un sistema invasivo poiché questi sistemi catturano indistintamente ogni specie di pesce, creando quindi un danno alla sostenibilità ambientale), così sulle confezioni di tonno in scatola e su quelle di altri pesci deve essere riportato anche il metodo di cattura. La lettura della scatoletta comincia a farsi interessante, ora sapete da dove arriva il contenuto e come è stato pescato.

Per informare e rassicurare i consumatori i regolamenti dell’UE numero 1169/2011 e numero 1379/2013 dettano le norme da seguire per etichette chiare e precise circa i prodotti della pesca (ma anche dell’acquacoltura, ossia dell’allevamento) fra cui:

    • denominazione commerciale della specie e suo nome scientifico
    • metodo di produzione ossia pescato in mari/oceani, pescato in acque dolci, allevato
    • zona di cattura o di allevamento (la sigla FAO può essere sostituita dal nome del mare o oceano)
    • categoria di attrezzi da pesca usati nella cattura (non aspettatevi la fiocina del capitano Achab)
    • Molti altri dati ancora secondo la normativa europea e italiana.

Se la lettura dell’etichetta vi fa sognare mari lontani, bisogna poi tornare a constatare la realtà, che non solo pone interrogativi sulla sostenibilità di lungo periodo della pesca, ma comincia anche a preoccupare per la presenza di microplastiche, sostanze tossiche come il mercurio, componenti inquinanti. Le sigle FAO 27, 61, 67 indicano zone di pesca ritenute ormai poco rassicuranti quanto a qualità delle acque e dell’ecosistema.

L’acquacoltura è l’alternativa che si sta sviluppando, ma va considerata in base alle tre diverse tipologie di allevamento: estensivo, intensivo, iper-intensivo. Va dà sé che quella estensiva è considerata molto sostenibile poiché viene realizzata in siti costieri, o in acque interne (laghi, fiumi, stagni) mantenendo l’integrità dell’ambiente naturale (ovviamente ci sono controlli anche per quanto riguarda gli allevamenti intensivi e iper-intensivi, ma questi ultimi aprono interrogativi sulla sostenibilità). La FAO con il programma Blue Growth Initiative mira ad armonizzare tutti gli aspetti (ambientali, sociali, economici) delle risorse acquatiche giacché anche gli allevamenti sono cresciuti in modo esponenziale.

L’alternativa fra pescato e allevato è praticata per pesci, molluschi e crostacei in funzione dei volumi di domanda.

La preferenza (non sempre consapevole da parte dei consumatori che spesso non leggono le etichette) per l’allevato è cresciuta costantemente negli ultimi 20 anni. Circa 89% del pesce allevato è appannaggio di alcuni Paesi asiatici, ma anche Cile, Egitto, Norvegia hanno sviluppato allevamenti sia marini sia di acqua dolce di grandi dimensioni.

Va poi considerata la controversa questione delle radiazioni ionizzanti attualmente consentite in USA per i crostacei (l’autorizzazione è stata data dalla Food and Drug Administration) come metodo per impedire la proliferazione di alcune tipologie di batteri. Nell’Unione Europea tale pratica è proibita.

Che il pesce venga acquistato conservato in scatola, surgelato, congelato, fresco una lettura all’etichetta vi svelerà molto.

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Marilde Motta

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